1963 – With the Beatles

Tre anni per incidere il primo album, tre mesi per il secondo, ha scritto qualcuno. Tre mesi, ritagliati fra luglio e settembre in mezzo a a un tour che li porta a suonare quasi tutti i giorni in giro per il Regno Unito, in cui i Beatles mettono insieme il seguito di Please please me. John e Paul scrivono ovunque, nei camerini e sul bus fra una data e l’altra. Si siedono uno davanti all’altro con le chitarre, il primo parte il secondo gli va dietro. Per McCartney diventerà il modo ovvio e scontato di scrivere un pezzo, tanto che quando il gruppo si scioglierà lui si stupirà di non trovare con altri la stessa chimica.
Il disco – si chiamerà With the Beatles e uscirà il 22 novembre del 1963, il giorno in cui a Dallas Lee Harvey Oswald uccide JFK – è un po’ la fotocopia del precedente, sei cover otto canzoni originali, fra cui la prima scritta da George Harrison. Nel frattempo Lennon e McCartney hanno messo in fila tre singoli da numero uno in classifica nel Regno Unito, è scoppiata la Beatlemania. La copertina è di Robert Freeman, che sarà l’artefice anche delle successive tre cover, fino a Rubber Soul. Ispirata alle fotografie fatte ad Amburgo da Astrid Kirchher e osteggiata dalla EMI, che la considera troppo lugubre ma deve arrendersi pur opponendosi all’idea iniziale di non avere titolo e nome del gruppo in copertina, diventerà una delle immagini più iconiche dei Beatles. La Capitol, l’etichetta che pubblica il gruppo negli Stati Uniti, la userà (virandola in blu) per Meet the Beatles, l’album della conquista dell’America e quindi del mondo.


It won’t be long. All’inizio doveva essere un singolo, poi non se ne fa niente perché fra le mani John e Paul avevano pezzi migliori, fra cui I want to hold your hand, la canzone che si rivelerà decisiva per la storia del gruppo e in generale della musica.
E’ un gran pezzo, comunque. Lo yeah yeah di She loves you, le armonizzazioni perfette, puro Lennon anche nel gioco di parole (be long/belong).

All I’ve got to do. Lenta, dolente, soul. Una delle migliori e più sottovalutate canzoni dei primissimi album dei Beatles, influenzata dallo stile di Smokey Robinson, una canzone pensata per il gusto statunitense, secondo il suo autore, Lennon.

All my loving. Il pezzo più famoso di tutto il disco, quello con cui apriranno la loro storica prima esibizione alla televisione americana, l’Ed Sullivan Show. E’ la prima grande canzone scritta da Paul – e la prima per cui abbia scritto prima il testo e poi la musica, dirà – valorizzata da un grande arrangiamento country western, il walking bass di McCartney, la ritmica di Lennon (presa forse da Da Doo Ron Ron delle Crystals) e il solo di Harrison in stile Carl Perkins.

Don’t bother me. Il primo pezzo firmato da George Harrison, che fino a quel momento si era limitato a cantare cover o pezzi più o meno gentilmente offerti da John e Paul. Il titolo potrebbe riferirsi al fatto che la scrisse mentre era chiuso in casa malato o – la mia interpretazione preferita, ricordo che la presentò così Mario Pezzolla alla radio in Beatles Opera Omnia – per rispondere a chi insis teva perché scrivesse qualcosa di suo. Con Ringo ai bonghi, fu più il tentativo di dire “sono in grado di farlo”, che qualcosa in cui George credeva davvero.

Little Child. Pezzaccio con McCartney al piano e Lennon all’armonica, di quelli che servono a completare i dischi. Ci sta se devi sfornare due dischi da 14 pezzi in un anno e non vuoi rifilare gli stessi pezzi pubblicati già su singolo. Però forse era meglio una cover.

Till there was you. Ecco, questa era una di quelle cover da Paul. La imparò grazie alla cugina che gli faceva da baby-sitter, i Beatles la suonavano già ai tempi di Amburgo. Il fatto che in scaletta un pezzo così stesse a fianco a Twist and Shout dice qualcosa sul modo in cui il gruppo si creò da subito un pubblico trasversale, dai teenager alle loro nonne. La canzone (con George e John alla chitarra classica e Ringo ai bonghi) veniva da un musical, The Music Man, scritto da Meredith Wilson, autore anche della colonna sonora de Il Grande Dittatore di Chaplin.

Please Mister Postman. Interpretato da un gruppo femminile – le Marvelettes – e suonato da Marvin Gaye alla batteria e James Jamerson al basso. Era un blues lento, all’inizio, Georgia Dobbins lo rese un pezzo doo-wop, più adatto alle capacità vocali del gruppo, e poi se ne andò per stare vicino alla madre malata. Il pezzo divenne il primo numero 1 della Motown, il Vietnam, inteso come guerra, ne cambierà le fortune, i ragazzi americani al fronte, famiglie e fidanzate aspettano notizie e lettere: There must be some word today
From my boyfriend so far away
Please Mr. Postman look and see
Is there a letter, a letter for me?

La cover dei Beatles è molto più che all’altezza anche se perde parte del pathos originale puntanto su un’esibizione più energica, battimani, voci raddoppiate e cori.


Roll over Beethoven. If you had to give Rock ‘n’ Roll another name, you might call it Chuck Berry. Questo pensava John Lennon. E parecchie sono le canzoni di Chuck Berry nel repertorio live dei Beatles, quando uscirà Live at the BBC, saranno sette i suoi pezzi, l’autore più rappresentato. Roll over Beethoven è però la prima a comparire su disco, ufficialmente. E se di solito è John a cantare Chuck, in questo caso il pezzo è affidato a George. Una delle cover meno riuscite dei Beatles, fra i pochissimi casi in cui non sono all’altezza dell’originale.

Hold me tight. Già registrata una prima volta in quella giornata furiosa in cui realizzano Please please me e poi scartata, Hold me tight viene ripescata e reincisa completamente per il secondo album. Per qualche ragione il gruppo non ci crede abbastanza e il risultato è deludente, ma basta ascoltare la versione cantata da Evan Rachel Wood nel film Across the universe per coglierne le potenzialità da singolo.

You really got a hold on me. Una delle più complicate, belle e riuscite cover dei Beatles. Un altro omaggio alla Motown, a Smokey Robinson e ai suoi Miracles. George Martin al pianoforte, la voce di John, quella di George, i cori di Paul. Forse meglio della pur perfetta versione originale.

I wanna be your man. Ci sono due versioni della storia, entrambe belle ma la seconda di più. La prima è che mentre si trovano a Charing Cross a guardare le chitarre di uno dei negozi di quella via strepitosa di Londra, John e Paul incontrano Mick Jagger e Keith Richards, si fanno dare un passaggio, chiacchierando scoprono che ai Rolling Stones serve un pezzo per il secondo singolo, e loro ne hanno uno perfetto per il sound del gruppo, lo hanno scritto per Ringo, glielo danno.
La seconda è che il manager degli Stones Andrew Loog Oldham convoca Lennon e McCartney per chiedergli un pezzo, loro ne hanno abbozzato uno e quando arrivano, mentre Jagger e Richards aspettano, si appartano un quarto d’ora ed eccolo pronto. Questa versione si conclude con Jagger e Richards ammirati per le capacità di John e Paul e che da quel momento cominceranno a scrivere insieme i pezzi dei Rolling Stones. In entrambe le versioni quello che non cambia è il finale: I wanna be your man diventa la prima hit dei Rolling Stones. Nella versione dei Beatles diventa un pezzo alla Bo Diddley, alla voce c’è Ringo, Martin suona l’hammond.

Devil in her heart. Ancora un gruppo femminile da omaggiare, stavolta le Donays e la loro Devil in his heart, che nella versione dei Beatles cambia genere e viene affidata a George Harrison.

Not a second time. Un critico americano parlò di “cadenze eolie” che richiamavano Mahler, McCartney e Lennon non sapevano minimamente di cosa parlasse e John dirà che stava semplicemente cercando di scrivere un pezzo che assomigliasse a Smokey Robinson.

Money (That’s what I want). Per chiudere il secondo album, un altro pezzo devastante in stile Twist and shout. Ancora una volta la Motown, con un pezzo scritto proprio dal fondatore dell’etichetta, Berry Gordy, e cantato da Barrett Strong. La versione dei Beatles – cantata da Lennon e con il pianoforte suonato da George Martin – è più potente e gioca sull’ironia del testo, cantato da quattro ventenni che suonano con l’unico obiettivo di fare soldi.

2 risposte a "1963 – With the Beatles"

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