1968 – The Beatles (disc 1)

L’album omonimo dei Beatles è un’enciclopedia dei Beatles stessi e del rock, un’opera enorme, creativa, caotica. Un esercizio di libertà estrema e autoindulgenza. Il capolavoro esatto e contrario rispetto all’album precedente, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Dove lì trionfavano i colori della copertina, qui si sceglie il bianco, la band fittizia dal nome lunghissimo riprende il suo nome, stampato in rilievo, semplicemente The Beatles (il titolo era previsto fosse A Doll’s House, come l’opera di Ibsen, ma i Family glielo “portarono via”) (curioso che a un certo punto un’altra Family, quella di Manson, finisca dentro la storia del White Album). Lì la cura maniacale, nel suono e nella scelta delle canzoni, un lavoro di pulizia estrema, qui finiscono su disco canzoni quasi in forma di demo. Soprattutto, lì c’era un gruppo unito, qui quattro solisti con – e nemmeno sempre – gli altri a fare da band di supporto. Sgt. Pepper’s era un manifesto psichedelico, sul White Album si torna al rock and roll – le avvisaglie c’erano state negli ultimi singoli, Lady Madonna e Revolution, ma la stessa Hey Jude era una ballata pura e semplice, senza sbandate lisergiche – e al folk. Le canzoni sono nate quasi tutte nel ritiro in India, a Rishikesh, su una chitarra acustica, e spesso tradiscono queste origini. Riferimenti alla natura e alla spiritualità, filastrocche folk in cui si sente l’influenza anche dei compagni d’avventura in quel ritiro. Su tutti Donovan, che insegnò loro il finger-picking che caratterizza alcuni brani, ma anche i Beach Boys (c’era Mike Love a Rishikesh) che stanno anche loro mettendosi alle spalle la stagione psichedelica per tornare al rock and roll.
Ne viene fuori un doppio album eccessivo e a tratti confuso ma epico. Trenta canzoni, un disco che secondo George Martin avrebbe avuto bisogno di una serie di esclusioni per diventare un’opera d’arte di 15-17 pezzi, ma che non avrebbe avuto il fascino che ha se i Beatles non avessero messo dentro tutto quanto, senza filtri, quasi vedessero ormai la fine avvicinarsi.

La prima traccia dell’album è clamorosa. Back in the U.S.S.R. è figlia di questa voglia di ritorno al rock and roll (strizza l’occhio a Back in the USA di Chuck Berry) e risente dell’influenza dei Beach Boys nei cori. Alla batteria c’è McCartney. Ringo si è rotto del clima nel gruppo, non si sente apprezzato e se ne va lascia i Beatles. Ci vorrà un po’ per convincerlo a tornare, fiori e la famosa dedica al “miglior batterista del mondo”, ma nel frattempo il gruppo va avanti. Non poteva esserci partenza migliore per l’album, che decolla immediatamente (in tutti i sensi), promettendo forse più di quanto manterrà. Senza interruzioni, con l’aereo che ancora si sente in sottofondo e sempre Paul alla batteria, parte la seconda traccia, Dear Prudence. È forse l’unica concessione ancora psichedelica dell’intero disco. Il pezzo è di John – dedicato alla sorella di Mia Farrow, entrambe erano a Rishikesk con i Beatles, che lì dal Maharishi si è isolata da tutti gli altri – e si regge su un bel basso di Paul e sui suoni liquidi delle chitarre di John e George. Nella terza traccia, Glass onion, Lennon si prende gioco di chi cerca significati nascosti nelle sue canzoni, a un certo punto cantando the walrus was Paul, per confondere o perché nel frattempo ha capito che il tricheco è il cattivo della storia di Lewis Carroll. Fra nonsense e citazioni il pezzo vive del contrasto tra l’apparente leggerezza del testo e i vagamente inquietanti archi di George Martin. Un gioiello che sfortunatamente è seguito e schiacciato da uno dei pezzi più scemi di Paul, la molto discutibile Ob-la-di, ob-la-da, odiata da John e George, amata da mio padre, appiccicoso riempitivo di cui non si sentiva il bisogno. La doppietta autoindulgente della prima facciata dell’album è completata da Wild Honey Pie, breve e inconcludente bozzetto “scritto” e interpretato da Paul sovraincidendo più chitarre e più voci, sicuramente una di quelle tracce che Martin avrebbe escluso volentieri. Tocca a John un primo passo per riportare in alto la qualità dell’album. La sua The continuing story of Bungalow Bill è un pezzo sarcastico sullo stile di quelli finiti nei suoi libri di limerick e nonsense seppure ispirato a un vero tizio che a Rishikesh decise di andare a caccia di tigri. Musicalmente sta tra la filastrocca per bambini e il singalong alcolico da pub, sono in tanti a partecipare divertiti ai cori e a un certo punto si può sentire la voce di Yoko che “canta” a modo suo una frase del testo.
Le ultime due tracce del lato A del primo dei due dischi che compongono dil White Album sono abbastanza innegabilmente il momento più alto dell’opera e una delle vette più alte raggiunte dalla discografia dei Beatles. While my guitar gently weeps è uno dei più grandi pezzi dei Beatles ed è scritto da George Harrison. Anche se nata come pezzo acustico e riflessivo, con un testo costruito attorno alle prime due parole (appunto gently e weeps) lette a caso – su ispirazione dell’I-Ching – progressivamente la canzone si trasforma in un grande classico rock in cui tutto è memorabile, il piano con cui si apre, il basso che Paul suona con il plettro, la voce di George. E poi ovviamente la chitarra solista che sembra piangere davvero insieme a George, affidata a Eric Clapton in uno dei più incredibili featuring della storia del rock, una sessione raccontata poi negli anni come un momento di serenità in mezzo alle tensioni che stritolavano il gruppo. A seguire, prima di girare il disco sul piatto, Happiness is a warm gun, una mini suite di John che ispirerà i Radiohead di Paranoid Android, l’unione fra tre bozzetti pieni di doppi sensi e allusioni che si conclude con quella sezione da pezzo anni 50, Lennon che canta da grande rocker qual è e i meravigliosi coretti bang bang shoot shoot.

La seconda facciata si apre con Martha my dear è l’ennesima concessione di McCartney al suo amore per il music hall. Nessun altro dei Beatles partecipa alla sessione, Paul suona tutto ed è accompagnato da una bella sezione di ottoni. E Martha è il suo bobtail. I’m so tired è un po’ l’altra faccia di I’m only sleeping su Revolver. Finita dentro alla leggenda della morte di Paul per le presunte frasi che Lennon sussurrerebbe (Paul is dead, miss him), è un gran bel pezzo rock dal sapore anni 50 impreziosito dalle voci di John e Paul e con i classici fill di batteria di Ringo nel finale. Fin qui – fatta eccezione per la traccia iniziale – i pezzi di Paul per l’album sono, nel migliore dei casi “carini”, nel peggiore Ob-la-di, Ob-la-da. Ma a questo punto arriva il suo capolavoro. Blackbird è in assoluto uno dei suoi pezzi migliori, nella sua semplicità – c’è solo McCartney con la sua chitarra a cantare un testo ispirato, pare, alle lotte per i diritti civili delle comunità afroamericane – un gioiello di bellezza quasi disarmante. E apre una sezione del White Album in cui si succedono tre pezzi con protagonisti degli animali. Dopo il merlo arrivano i maialini e poi il procione. Il primo pezzo, Piggies, è un pezzo barocco di George Harrison (che si lancia anche in qualche grugnito alla fine) con in primo piano il clavicembalo suonato da Chris Thomas, allora fra gli assistenti di studio in seguito diventato il produttore dei Sex Pistols e dei Pretenders ma anche di Common people dei Pulp. La canzone di George è una satira anti-sistema con riferimenti a Orwell, diventerà famosa perché la Family di Charles Manson si dirà ispirata da questa canzone per gli attacchi ai bianchi borghesi e per l’omicidio, tra gli altri, di Sharon Tate. Il secondo, Rocky Raccoon (al cui nome si ispirerà la Marvel per il personaggio di Rocket) è un divertente country-western da saloon, con George Martin al piano honky-tonk, Lennon che suona l’armonica e Paul che scimmiotta un accendo degli Stati Uniti del sud nell’introduzione parlata. L’atmosfera country prosegue con il primo pezzo firmato autonomamente da Ringo, Don’t pass me by, certo non la cosa più memorabile suonata dai Beatles (in realtà in questo caso dai soli Ringo e Paul) ma fondamentale per lo spettro di generi e sonorità che il gruppo mostra di padroneggiare sull’enciclopedico White Album. E poi c’è un bel violino suonato da Jack Fallon. Sempre Ringo e Paul da soli – e qui con un certo dispiacere di John – si dedicano a Why don’t we do it in the road?, poco più di un esercizio di stile di McCartney, un anticipo di ciò che si sentirà sui suoi primi confusi album solisti, cantato però con convinzione tale da renderlo non così trascurabile. A ispirare il testo la visione di due scimmie che si accoppiavano per strada durante il soggiorno dal Maharishi in India. La chiusura del primo dei due dischi che formano l’album vede nuovamente alzarsi la qualità dei pezzi. Anche I will, come molte delle canzoni presenti sul White Album, sembra poco più di una demo, un bozzetto appena accennato, un’idea pubblicata ancora prima d’essere definitiva. Ma è un gioiello folk pop di puro genio maccartiano, con Paul che fa il basso con la voce e Ringo e John che lo aiutano con le percussioni.
Il gran finale, prima di passare al secondo disco, è di John con la sua struggente Julia, che comincia con una citazione di Gibran (half of what I say is meaningless, but I say it just to reach you) ed è dedicata alle due figure femminili più importanti della sua vita: la madre Julia, appunto, e Yoko Ono, citata con la traduzione inglese del suo nome, Oceanchild.



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